Erano già lì sul palco, a riscaldarsi, a fare quello che dovrebbe fare sempre un attore. Mettersi in relazione con il proprio corpo, con il proprio respiro e con quello degli altri.
Un attore al centro del cerchio composto dai suoi compagni; è quello che ‘guida’. Il ritmo del movimento è quasi sempre lo stesso. Varia, però, il gesto e la sua ampiezza. Gli altri, semplicemente, copiano. Adattando al proprio corpo quel movimento lì, il più possibile. Quando il tempo di quella presenza è finito, tocca ad un altro. E così via. Di solito questo training è privato, è una materia oscura di cui poco si parla e che si preferisce nascondere allo spettatore.
Emma Dante (e non è la prima né sarà l’ultima) mette l’attore al centro e mostra al pubblico in sala cosa vuol dire avere a che fare con quella materia lì. ‘La materia di cui sono fatti i sogni’ – diceva Shakespeare. La materia di cui sono fatti anche gli incubi, secondo me.
La mia ‘scuola’, il mio approccio al lavoro teatrale, è sempre stato fisico. Ho riso la prima volta che ho visto una ragazza presentarsi a un provino in tacchi. Per me era inconcepibile una cosa del genere. Un attore di teatro è un atleta. Se proprio deve avere delle scarpe, devono essere da ginnastica. La concezione che Emma Dante ha dell’attore ha la stessa pasta di Gabriele Vacis (vi ho già scritto di lui) e di Jerzi Grotowski. Il regista polacco è l’inizio di tutto quanto più mi tocca la pancia. Ha portato il lavoro sul corpo dell’attore al centro. Con Eugenio Barba (considerato – con un altro regista pazzesco, l’inglese Peter Brook – uno dei più grandi intellettuali ancora in vita) ha iniziato una vera e propria rivoluzione nel campo artistico. Da metà degli anni ’70, un architetto di Settimo Torinese, Gabriele Vacis iniziò a seguirne le orme e a sviluppare forme proprie che fossero di aiuto all’attore in scena. Guardando lo spettacolo di Emma Dante ho riconosciuto quasi tutti i segni di Vacis, a partire dall’esercizio per eccellenza, ‘la schiera’. Un attore fa dodici passi in una direzione, poi ruota su se stesso e continua nella direzione opposta per altri dodici passi. E così via. Bisogna fare attenzione a non perdere il ritmo durante la rotazione. Bisogna respirare. Non ingobbirsi e mantenere sempre il tendenza verso l’alto. Ci si sente come attraversati da un cavo di acciaio all’altezza dell’ombelico. Bisogna fare attenzione a non fare rumore. Quando è pronto, quando è davvero in ascolto, un attore può unirsi alla schiera del primo che ha iniziato l’esercizio. E così via. Ci possono essere variazioni, rotazioni differenti. L’obiettivo è che tutto il gruppo si muova come fosse una cosa sola. Che si respiri insieme. Che si diventi un branco (una delle più grandi allieve di Vacis, Barbara Bonriposi, adesso chiama l’obiettivo finale del lavoro lo stormo).

Gli attori di Emma Dante riescono perfettamente a diventare una cosa sola. La loro nudità in scena – derisa, esposta, nascosta, interpretata – dopo qualche minuto dalla svestizione non viene quasi più percepita. La loro stessa umanità viene in alcuni momenti annullata (diventano bestie o si privano della loro specialità ed unicità per diventare semplici corpi), in altri evidenziata tanto da far sentire quasi a disagio lo spettatore spesso (capita anche in città in cui il teatro viene vissuto non solo da ricchi abbonati ultranovantenni – che è comunque sempre un bene che ci siano) seduti accanto ad altri essere umani impacchettati per il ‘rito della serata a teatro’ in abiti resi ridicoli dal contrasto con quello che è sotto i riflettori per essere guardato. Lo spettacolo di Emma Dante è un modo molto semplice e furbo per realizzare uno spettacolo (facile partire dal lavoro degli attori, dalle loro improvvisazioni durante la parte laboratoriale, per ritagliarle e metterle in scena piuttosto che confezionare una drammaturgia partendo da altro o inserendo il lavoro dell’attore in un testo scritto) eppure è anche un grandissimo atto di amore nei confronti dell’essere umano e del grande lavoro artigianale di chi ha il coraggio di salire in scena, di crescere con il sudore e la fatica, anche esponendosi allo scherno, ma soprattutto, mettendo a disposizione l’essenza stesso di quella bestia meravigliosa che è l’essere umano.

(Bellissimo).