Lo chiamano ‘Il professore’. Sta quasi tutto il giorno sdraiato su un divano in mezzo al deserto del Nevada. Ascolta il cielo che, ormai, non gli parla più. Ogni tanto lo sveglia Stella (Clémence Poésy, che è sempre bellissima e per la quale il tempo sembra non scorrere ma che, quando non lavora per sottrazione – meno faccine, meno passettini – non mi convince), una wedding planner per matrimoni ‘stellari’ per coppie che si recano accanto all’area 51 – misteriosa zona militare statunitense nella quale si crede si portino avanti esperimenti legati a forme di vita aliena – per raccogliere quell’energia per la loro unione; recapita la posta e la spesa al Professore e, se gli serve, gli fa da autista. Tanto ormai ha pochi clienti; sono sempre in meno ad alzare la testa e a guardare il cielo. L’immenso Valerio Mastandrea indossa i panni (e i baffi) di uno scienziato taciturno e disincantato che dalla morte della moglie non ha fatto altro che trascinarsi. Fino ad adesso. Anche suo fratello Fidel (Gianfelice Imparato), a Napoli, ha perso la moglie. Non si è trascinato, però, perché ha due figli di cui occuparsi, Anita, di sedici anni (Chiara Stella Riccio), e Tito, di sette (Luca Esposito). Tito ancora sa guardare il cielo. Suo padre lo ha convinto che sua madre sia ancora lì, da qualche parte; finge di parlarle attraverso una fotografia per mantenere stretto il legame tra i due. E così, quando muore anche lui, e i due piccoli vengono spediti dallo zio scienziato, Tito cercherà il modo di comunicare anche con suo padre.
Avrei chiamato questo film ‘Tito e gli alieni, il Professore e Linda, Anita e Lady Gaga’. O non so. Ho ripetuto più volte Tito e gli alieni e mi è sembrato un po’ riduttivo rispetto alla materia del suo contenuto anche se l’accoppiata ‘bambini (napoletani) + fantascienza’ è l’elemento caratterizzante del racconto. Non credo, però, che Tito sia il solo motore di questa storia che, invece, poggia moltissimo sulla figura del Professore anche se resta un racconto familiare e collettivo dei movimenti (fisici ed emotivi) di questa microscopica unità che si viene a creare con l’arrivo dei ragazzi e con la presa di consapevolezza che senza Stella il Professore non saprebbe gestirli. In ogni caso, Tito arriva alla base dello zio e al suo primo risveglio vede delle luci che potrebbero essere aliene, veloci nel muoversi e nello sparire. Crede che suo zio stia lavorando a qualcosa che abbia a che fare con questo, invece il Professore sta cercando un contatto nello spazio (con il passato? con l’aldilà? con gli alieni?) attraverso una macchina di nome Linda. Linda, come sua moglie che non c’è più. Anita, invece, credeva di trasferirsi a Las Vegas e di poter incontrare Lady Gaga o, quantomeno, avere a disposizione una piscina. Non ci sono né Lady Gaga né la piscina nemmeno nel paese più vicino alla base del Professore, Rachel, di soli 54 abitanti e dove gli unici giovani attraenti che Anita può incontrare sono i soldati statunitensi che lavorano nell’area top secret. Nonostante la tenerezza del racconto e delle figure in esso inserite, i colori molto accesi degli abiti indossati dai personaggi e di alcuni elementi delle scene e la suggestività degli ambienti (la ‘camera’ dei ragazzi è un igloo fluo nel deserto, una sorta di navicella spaziale nel buio della notte e il container del Professore una scatola alla MacGyver), il tema centrale di questo film, a tratti molto divertente (il cartello dell’autostop per un quartiere specifico di Napoli è buffissimo), è la morte. Il rapporto con l’aldilà e la difficoltà dell’uomo occidentale di affrontare la propria fine, ma soprattutto quella dei propri cari, nonostante lo smorzamento dato dalla raffigurazione del contesto, a livello narrativo è addirittura triplicato (il Professore non riesce a superare la morte della moglie, Tito non riesce a superare quella della madre né quella del padre) e in una delle scene madri assumono in modo esplicito carattere universale. Tutti hanno qualcuno a cui pensare che non c’è più. Tito e gli alieni riporta alla memoria Solaris di Tarkovskij (film del 1972 – tratto da un romanzo del 1962 di Lem – di cui Soderbergh fece un remake nel 2002 con George Clooney) ma anche Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg del 1977 ed Arrival di Villeneuve del 2016. Si tratta di una buona prova della regista Paola Randi, capacissima nella direzione dei più piccoli (i grandi fanno da sé ma a far risultare bravi dei bambini è la regia) e nella confezione di un film che riesce ad emozionare e a divertire e di cui potrei personalmente solo criticare la scelta di dar forma al contatto, dato che apprezzo più la tensione della ricerca che la definizione della cosa cercata – il mare che non c’è in Il mare dentro di Amenàbar del 2004 e l’America mai mostrata in Nuovomondo di Crialese del 2006. A me, però, tocca la pancia la scelta di questo racconto da parte di Matilde Barbagallo, la produttrice. Ho conosciuto Matilde quando studiava ancora fisica all’Università ma era già capacissima di tenere il vento con una vela. Il suo primo lungometraggio non poteva che trattare del coraggio di porsi certe domande e della grandezza di chi ancora riesce a fermarsi e ad osservare il cielo. Io credo che l’arte, soprattutto in questo momento storico, non possa pretendere meno da sé.