The place è un bar bistrot su una strada abbastanza frequentata e i suoi avventori sono di tutti i tipi. Ma soprattutto è il posto dove puoi trovarlo. Lui è seduto lì tutto il giorno. Puoi chiedergli qualunque cosa credi possa renderti felice; lui consulterà la sua agenda e ti dirà la cosa da fare, la missione da compiere, per raggiungere il tuo obiettivo. Ma sei davvero sicuro che quel desiderio, una volta realizzato, sistemerà tutto?
Sarai disposto a fare qualunque cosa lui ti chieda?
E il dubbio su cui lui sia, per poter fare quanto sta facendo, ti è mai venuto?
O davvero, non importa poi tanto?
Dopo l’enorme successo di Perfetti sconosciuti, Paolo Genovese torna alla macchina da presa per girare un altro film collettivo ispirato – in realtà è identico – a una serie canadese del 2011, The Booth at the End (‘l’ultima cabina’), con protagonista Xander Berkeley (il cattivo di Gattaca – La porta dell’universo, per capirci). La versione italiana vede come fulcro Valerio Mastrandrea, ‘l’uomo con l’agenda’, che non calca mai troppo la mano con la recitazione ed è davvero molto credibile nonostante interpreti un personaggio misterioso, per nulla didascalico, di cui riesce a normalizzare la quotidianità fino a farcelo percepire quasi come un ‘comune’ impiegato che segue scrupolosamente le procedure atte a svolgere il suo compito.
Bravissimo, davvero.
Angela (Sabrina Ferilli) è una cameriera del The Place. Di solito è lei a fare chiusura e a rimanere, quindi, a fine serata da sola con l’uomo dell’agenda, di cui, però, riesce a intravedere pochissimo a parte la stanchezza. Ogni tipologia di essere umano durante la giornata si ferma al tavolo di lui: al momento, contribuiscono alla costruzione dell’agenda – o distruzione perché ogni compito portato a termine è anche un appunto finito in cenere – un poliziotto (Marco Giallini), una suora (Alba Rohrwacher), una moglie (Vittoria Puccini), un meccanico (Rocco Papaleo), un piccolo spacciatore (Silvio Muccino), una ragazza (Silvia D’Amico), un padre (Vinicio Marchioni), un cieco (Alessandro Borghi) , un’anziana (Giulia Lazzarini). A parte Ferilli (che a me pare veramente poco credibile come cameriera, anche per via di questi zigomi chirurgici che ne rovinano il volto), Lazzarini (che ha dei tempi nella battuta molto dilatati e non mi ha convinto del tutto ) e Muccino (i cui sforzi per sfuggire dalla ‘zeppola’ rendono l’articolazione delle parole ancora un po’ un esercizio), la recitazione nel film è buona e la storia molto interessante e diversa da quanto visto finora.
Il problema più grande personalmente credo sia la struttura del racconto: Genovese ricalca quella della serie, suddividendo il film in micro capitoli, ognuno dedicato alla singola richiesta e suddiviso da una dissolvenza (solo in due momenti due figure rischiano la sovrapposizione ma non sembrano interessati al percorso dell’altro e, quindi, l’incontro è privo di senso). Il tutto, forma e tipologia di storia (un luogo, tante persone che ci gravitano raccontando la loro vita) mi ha richiamato alla mente un’altra serie, In Treatment (con Gabriel Byrne nella versione originale e Sergio Castellitto in quella italiana) e mi ha fatto chiedere se non fosse una scelta migliore scegliere quella stessa tipologia per una versione italiana piuttosto che un lungometraggio, che non aggiunge nulla al racconto, se non richiedere una restrizione dei tempi e la snaturare del formato di origine. Insomma, sono uscita dalla sala abbastanza delusa.
Credo sia anche stata pessima la scelta di promuovere il film con il sottofondo di uno dei brani che costituiscono la colonna sonora, Sunny di Bobby Hebb, canzone che privata dal contesto in cui è utilizzata nel film (dove lascia allo spettatore una sensazione di amarezza infinita perché si lega alla speranza, magari tradita, di uno dei suoi personaggi) potrebbe far intendere che The place (critico negativamente, tra l’altro, anche la scelta del titolo inglese dato che avrebbero potuto trovarne uno italiano dello stesso valore) sia un prodotto molto meno drammatico di quel che è.