Tom Hanks prende la storia di Ove, che era già stata di un film con dei toni ancora più freddi, svedese (arrivato a rappresentare la Svezia agli Oscar come migliore film straniero nel 2017, Mr. Ove – En man som heter Ove, con la regia di Hannes Holm) e un libro (L’uomo che metteva in ordine il mondo di Fredrik Backman – che in questi giorni, si è guadagnato anche il libreria un titolo che ricalca, invece, la nuova trasposizione filmica hollywoodiana) e la fa diventare quella di Otto, ricopiandola quasi fedelmente in una pellicola di cui è produttore e protagonista, Non così vicino (titolo più allusivo dell’originale A man called Otto). Questo perché è una storia di vicinato, di incontro, di distanze, di confini, di direzioni, di quello che viene considerato ‘dentro’ e quello che è considerato ‘fuori’, sulla sensazione di casa e famiglia; una storia di quello che vediamo dalla finestra e oltre essa, ciò che unisce oltre le differenze e le impressioni e ci fa comunità. Ed è una storia sempre attuale, che non invecchia. Purtroppo e per fortuna.
Otto è un uomo burbero, preciso e rompiscatole, brusco nei modi e quasi maleducato perché ostile a qualunque tipo di approccio; pretende il rispetto delle regole che cerca di esercitare in maniera molto puntuale soprattutto nel complesso residenziale in cui vive. É ormai arrivato alla pensione, e, dopo una piccola presentazione della sua routine e dei personaggi che ruotano nel vicinato, scopriamo che il suo obiettivo è quello di uccidersi (una volta che ha sistemato tutto, come staccato corrente, gas e telefono affinché nulla vada sprecato dopo la sua dipartita) per riuscire a ‘raggiungere’ sua moglie, che è morta da qualche mese di cancro. L’arrivo di nuovi vicini (una donna messicana immigrata, Marisol, con la pancia di una gravidanza avanzata – che è, nel presente filmico, la nota di colore che rischiara tutto quello che è intorno – marito imbranato e bambini piccoli al seguito) renderà più complicato il raggiungimento del suo proposito.
Mi sono chiesta come mai Hanks avesse scelto proprio questo titolo per un’impresa, direi, ‘familiare’, dato che tra i produttori figura (con lui) anche sua moglie Rita Wilson e, a dare corpo alla figura di Otto giovane, è il loro ultimo figlio Truman Hanks (che finora aveva avuto solo una piccola parte in The Cloverfiel Paradox del 2018 e aveva lavorato nel cinema in settori diversi dalla recitazione). Il regista Marc Forster (quello che ha fatto vincere l’Oscar come miglior attrice nel 2001 a Halle Berry per il film Monster’s Ball – L’ombra della vita e ha lavorato con tante star in film notissimi come Il cacciatore di aquiloni, Quantum of Solace, World War Z) segue quasi del tutto l’originale, tranne che per qualche particolare del personaggio di Otto, che perde alcune ‘giustificazioni’ dell’originale e acquista una dimensione quasi un po’ patologica, come se Otto avesse qualcosa di più di un brutto carattere e fosse necessaria una capacità, quasi un super potere, che nel film è caratteristica di donne intelligenti, autonome, piene di vita, altruiste e capaci di aprirsi, nonostante abbiano passato momenti negativi e terribili e abbiano dovuto accettare il meglio di quanto possibile. Che va benissimo, anche se è l’adattarsi ad una mediocre serenità.
E che ci ricorda che possiamo sempre imparare anche da ciò che ci pare insopportabile, e addirittura, trovare nel diverso un riconoscimento totale, quasi miracoloso, e farne famiglia, anche quando ci sembra troppo tardi, o quando ci sembra preferibile non guardare al di là del vialetto. E anche che, alle volte, anche se siamo mediocri, possiamo legarci alla mediocrità degli altri, non consentire ad altri di schiacciarla, e consentirle di essere una mediocrità serena, normale, pacifica, piena. Vera. Come la vita.
E farla essere un po’ più speciale.