Ero in una pizzeria milanese con pochissimi tavoli ad aspettare un’amica in ritardo. Accanto a me, solo un piccolo tavolo quadrato era occupato da due ragazze. Il racconto di loro (turbante tra i capelli, mille anelli alle dita) era imperdibile (ebbene sì, spesso ascolto tralci di conversazioni se queste riescono a distrarmi dall’onnipresente lettura). L’una all’altra (con mega occhiali e l’incapacità di trattenersi dal giocare con la cannuccia della sua bibita): ‘Ma sai che mi è successa una cosa stranissima? Sabato Giulio ha comprato della ‘maria’ da un nuovo spacciatore. Ha mandato un sms a un numero. Dopo qualche ora, il tizio ha risposto, sempre tramite messaggio, e si sono messi d’accordo per la consegna. Fin qui, niente di strano, ma quando poi è arrivato… era con un altro vecchietto…come lui. Due signori di sessanta, sessantacinque anni. Italiani, con il cappello e la giacca. Una roba incredibile. Noi siamo rimasti lì come due scemi. Giulio ha pagato e aveva ancora la bocca aperta per lo stupore quando i signori sono andati via’. Sono rimasta anche io, un po’ basita, a pensare che alle volte la vita è più assurda delle sceneggiature dei film. Mi ero persino ripromessa di scrivere dei due vecchietti spacciatori ma qualcun altro, un giornalista di nome Sam Dolnick, aveva sentito una storia simile,  quella di Leo Sharp, un novantenne veterano della seconda guerra mondiale che era divenuto corriere di droga negli anni ottanta per il cartello di Sinaloa, e ne aveva scritto un articolo sul New York Times. Da lì la sceneggiatura di Nick Schenk (lo stesso di Gran Torino) che ha dato vita al film Il corriere – The mule. E chi poteva dirigere e interpretare una storia del genere se non Clint Eastwood? Earl Stone è un novantenne che ha passato tutta la vita a coltivare fiori. Purtroppo, gli è andata male e lo incontriamo mentre dà una liquidazione ai suoi aiutanti, tutti messicani, con i quali c’è la confidenza data da tanti anni di differenze consapevoli, anche di frequente rinfacciate, ma del rispetto di chi lavora e riconosce chi fa lo stesso. Quella casa e quella serra, tutto quello su cui ha puntato la sua vita e la sua persona, attaccandosi al piacere del successo lavorativo nonostante fosse sempre in giro per concorsi nei vari Stati del suo Paese, sono stati pignorati. Il problema è che per quel piacere, per quel successo che non ha portato a niente, Earl ha sacrificato la sua famiglia. Assente anche nei momenti più importanti della vita di sua figlia (la vera figlia di Eastwood, Alison) e sua moglie (Dianne Wiest), è stato allontanato da tutti, tranne che da sua nipote (Taissa Farmiga di American horror story) che ancora spera si possa recuperare un rapporto. Peccato però che un contatto con i suoi parenti Earl lo cerchi proprio quando ha perso tutto. Cosa può offrire per dimostrare di non essere motivato solo dall’interesse alla propria sopravvivenza? Ma cosa potrebbe fare un vecchio che per tutta la vita non ha fatto altro che guidare avanti e indietro per gli Stati Uniti visitandone 48 su 50? Qualcuno potrebbe avere bisogno di un autista con la fedina penale immacolata?

Eastwood ci racconta un’America in crisi, dove i matrimoni si realizzano in una squallida sala, internet fa concorrenza a qualsiasi attività e i vecchi servono solo per aiutare i giovani che da soli, nonostante lavorino, non hanno nemmeno i soldi necessari ad offrire un giro di bibite agli amici o a pagarsi un diploma professionale. I vecchi sono però quelli che ancora sanno scambiare due passi di danza e far piroettare una donna, cosa a cui internet ha disabituato i più, prendersi una pausa e creare dei rapporti. Sanno godersi un viaggio anche quando il bagagliaio è pieno di droga per un cartello messicano, perché molta scelta e hanno bisogno di soldi per rimediare a un rapporto. Anche se, in realtà, non ci sarebbe bisogno di danaro per chiedere scusa e, una volta tanto, essere presenti.

Ho sperato che, a un certo punto, questo racconto di una speranza così tardiva di sistemare le cose diventasse un film d’azione sfrenata, in cui la ricerca della polizia, e nello specifico quella dell’agente della Dea Colin Bates (Bradley Cooper), andasse in un’altra direzione e salvasse qualche destino. Il cambio di tono (i dialoghi sono fortemente ironici come il linguaggio di una certa, concretissima generazione) della storia non è poi stato così netto da farmi empatizzare davvero con il percorso finale del personaggio di Earl. Resta, su tutto questo, la sfacciataggine e bellezza di un incredibile attore e regista, che riesce ancora a raccontare quei vecchi che sembravano non interessare a nessuno e i cui volti segnati dal tempo, le gambe secche e i pantaloni allacciati a vita alta, ci fanno sperare di essere in grado di riconoscerli, perdonarli se ci hanno ferito e rompere la loro corazza per tenerli accanto a noi un po’ di più. Basterebbe ogni tanto, come ci suggerisce Earl, spegnere questi dannati telefonini e guardare la vita vera di cui facciamo parte.