L’ultima volta che avevo visto in scena un attore apprezzato di più per il lavoro in cinema che in tv ero rimasta profondamente delusa.
Si trattava di Luigi Lo Cascio e lo spettacolo era La Caccia, al teatro Elfo Puccini, nel 2010, vincitore del Biglietto D’Oro per il Teatro 2008 (quindi, non una produzione da poco…). La scenografia dello spettacolo (scene e art direction di Alice Mangano; scene e disegni di Nicola Console), liberamente tratto da Le Baccanti di Euripide, era pazzesca e completamente a disposizione dell’attore che si muoveva come un astronauta nello spazio buio – e poi colorato, disegnato, attraversato – della scena in una riflessione sul senso del tragico e della paura dell’altro. Peccato. Perché la recitazione di Lo Cascio era priva di vena, scolastica, un trucchetto da bravo allievo di accademia (voce impostata e portata nella sala correttamente, finali scandite, controllo della scena) ma nulla più.
‘Dov’è l’anima?’ – continuavo a chiedermi.

Quindi, mentre entravo nella piccola bomboniera del Piccolo Teatro Grassi per vedere Louise e Renée  – da un testo di Honoré de Balzac e con la regia di Sonia Bergamasco – avevo paura di lei. Parlo di Isabella Ragonese, in scena con Federica Fracassi. Io per Isabella Ragonese (come avreste capito anche dal post su Il padre d’Italia di Fabio Mollo https://uanema.net/il-padre-ditalia-di-fabio-mollo/) ho una passione. Seguo il suo percorso da Nuovo mondo di Crialese (film che vi consiglio caldamente che vi racconta l’America senza farvi vedere l’America) in cui aveva un ruolo piccolissimo, e non mi ha mai delusa, adattandosi ogni volta a ruoli molto diversi e mantenendo la stessa freschezza degli inizi.
Un ottimo attore teatrale potrebbe non essere altrettanto bravo in cinema e viceversa. Il cinema è più quotidiano, spicciolo e parte della sua difficoltà (a prescindere dalla comprensione e trasmissione dell’emozione che è la base del lavoro dell’attore in generale, la capacità di essere lo ‘spazio vuoto’ di cui parlava Peter Brook e da cui si può partire per raccontare qualcosa) sta nel frazionamento di un piano di lavorazione. Se devi recitare l’inizio del film e la sua fine senza passare per le scene di mezzo nella stessa giornata, non hai il tempo – che il teatro invece ti dà – di far crescere il tuo personaggio. Devi saperlo fare, così, d’emblée,  come viaggiando nello spazio dentro di te. D’altra parte, in teatro, sei prossimo allo spettatore e non puoi fermarti e dire: ‘Scusate, mi è venuta male, non ho memoria, oggi è una brutta giornata, la rifacciamo?’ Inoltre, bisogna essere molto più allenati (corporalmente e vocalmente) per raggiungere l’ultimo spettatore (e l’ultimo secondo della performance). Bisogna – come diceva Stanislavskij – ‘lanciare l’anima oltre l’ostacolo’. Marcare tutto – fisico e voce – un po’ di più rispetto a quanto si fa in cinema, in cui si richiede naturalezza.
Giocare un po’ con l’artificio.
Gli attori teatrali e gli attori cinematografici, in sintesi, fanno magie diverse.
E poi ci sono quegli attori che sanno fare tutto, come esseri mitologici appartenenti a dimensioni parallele. E Isabella Ragonese è uno di questi.

Passiamo allo spettacolo.
Stefano Massini (non uno che passava lì per caso, dal momento che si tratta di uno dei drammaturghi più interessanti degli ultimi vent’anni – del quale probabilmente avete visto Lehman Trilogy o il film 7 minuti diretto da Michele Placido) ha curato la drammaturgia dell’opera di Balzac, un racconto epistolare in cui due amiche, Renée (Federica Fracassi) e Louise (Isabella Ragonese), conosciutesi in un collegio da ragazzine, si raccontano il loro crescere e divenire donne nella Francia del 1800. La storia è attualissima e amara.
La regia di Sonia Bergamasco (e anche qui, mi sono trovata di fronte a una sorpresa, dato che non è mai stata una delle mie attrici preferite e avevo dei pregiudizi nei confronti della sua capacità direttiva) ha reso quasi identiche le due donne: rosse, come la passione che le muove e che le ha unite e che resta nelle parole che si scambiano di lettera in lettera; leggere, come il vento che carezza le pagine scritte e fa tremare la luce delle candele utilizzate per leggerle. Si muovono in concerto o in opposizione sul palco, quasi sovrapponendosi. Potrebbero essere – e forse sono – due facce della stessa donna, incorniciata (e non si tratta di un termine scelto a caso dato che la scenografia è fatta di cornici e quinte che si muovono nello spazio scenico) di volta in volta, in una fase diversa della sua vita quando subisce, sceglie, si ribella, accetta, si stupisce, resta delusa.
Ancora mi domando se oggi una donna ha una via d’uscita.
Ancora mi domando quanto ancora ci sia da cambiare.

Speriamo che questo spettacolo vada in tournée. Cercatelo.