Cameron è una ragazzina. Studia la Bibbia con altri ragazzini. Tra loro ce n’è una in particolare, Coley. Dopo la lezione tornano insieme nella casa in cui Cameron vive con Ruth, sua zia. La zia non è in casa. Le due ragazze si chiudono in camera di Cameron, si baciano appassionatamente e si lasciano andare a molto di più. Chissà da quanto va avanti. È il 1993, siamo nel Montana.
Al ballo di fine anno, Cameron e Coley hanno degli accompagnatori. Maschi, ovviamente. Ma ragazze innamorate di altre ragazze o ragazzi innamorati di altri ragazzi, a quell’età, sono esattamente come le ragazze e i ragazzi innamorati dell’altro sesso: non si fermano davanti a niente ed è molto difficile che riescano a nascondere quello che provano perché sono invincibili.
‘God’s promise’, la promessa di Dio, è il nome di un centro nel quale si cerca di ‘guarire’ gli adolescenti confusi sulla propria sessualità. Dopo la sera del ballo di fine anno, Cameron finisce proprio lì anche se lei non sembra affatto confusa ma, al contrario, pare molto consapevole di una quasi scontata necessità di nascondersi. L’accompagna all’istituto zia Ruth perché è convinta, come tanti, che in questo modo stia facendo il bene della nipotina, perché possa guarire e tornare a casa ed avere una felice normale vita. Soprattutto normale.
Lo scorso anno, nel 2017, è morto Joseph Nicolosi, psicologo statunitense considerato il padre delle ‘terapie riparative’, ossia quelle pratiche avviate da psicologi e/o presunti tali per aiutare le persone ad ‘uscire’ dall’omosessualità. In realtà, secondo il pensiero di Nicolosi, l’omosessualità non esisterebbe in quanto sarebbe, a suo parere, un semplice condizionamento, ambientale o causato da traumi familiari. Tra i metodi usati nella sua terapia l’elettroshock, l’ipnosi, l’iniezione di farmaci inducenti nausea in associazione a stimoli omoerotici ma anche la preghiera collettiva, la psicoterapia e il counseling pastorale (ossia una forma di relazione d’aiuto che cerca di integrare la spiritualità cristiana con l’apporto delle scienze psicologiche).
La diseducazione di Cameron Post di Desiree Akhavan racconta il percorso di un’adolescente degli anni ’90 in un centro, come tanti presenti allora negli Stati Uniti, in cui si insegna a considerare l’attrazione nei confronti dello stesso sesso come una devianza innaturale. I ragazzi vengono spinti verso l’odio di sé e verso l’enorme sofferenza di dover cercare i motivi del proprio stato di ‘deviati’ indagando tutta la loro esistenza, le probabili anomalie del piccolo percorso che hanno alle spalle e che potrebbero averli fatti diventare così come sono. Cameron arriva nella struttura di cui è direttrice Lydia Marsh (Jennifer Ehle) con il supporto di suo fratello Rick (John Gallagher Jr. di The Newsroom), il primo omosessuale da lei ‘guarito’, dove la ragazzina incontra altri adolescenti nella sua stessa situazione, più o meno speranzosi in una buona riuscita della cura, più o meno inclini a voler soffocare se stessi per allinearsi alle aspettative dei propri familiari, più o meno colpevoli per essere ‘così’.
La storia è tratta dal libro omonimo di Emily M. Danforth edito in Italia da Rizzoli (indicato come ‘narrativa ragazzi’), in cui vi è un racconto molto più esteso della vita di Cameron e anche un’ironia maggiore che, personalmente, non ritengo sia stata tradotta così fedelmente nella versione cinematografica.
La sceneggiatura scritta dalla regista insieme a Cecilia Frugiele si focalizza sul ricovero di Cameron (la bellissima Chloe Grace Moretz, una specie di versione femminile del Di Caprio degli albori) e su una sorta di resistenza – piena di dubbi che accompagnerebbero un adulto consapevole, figuriamoci una ragazzina – perpetuata grazie ad altri due ospiti della struttura, Jane (Sasha Lane), figlia di una coppia di hippie cresciuta in una comune che ha perso una gamba in un incidente, e Adam (Forrest Goodluck), nativo d’America la cui identità sessuale è stata respinta dal padre solo quando questi è entrato in politica. Desiree Akhavan sceglie, a mio parere, una protagonista, Chloe Grace Moretz, un po’ troppo bella rispetto agli altri attori; una figura un po’ distraente perché unica in mezzo a bruttini, bruttarelli o a figure che potremmo definire ‘tipi’. Per farmi capire, anche Angelina Jolie in Ragazze interrotte del 1999 era una bomba sexy, ma gli altri attori che recitavano al suo fianco erano Winona Ryder, Brittany Murphy, Elisabeth Moss e Jared Leto. Insomma. Con tutto il rispetto per il resto del cast di Cameron Post, Chloe Grace Moretz mi sembra splendere un po’ troppo rispetto a quello che è attorno a lei (dal punto di vista fisico, non attoriale dato che la sua performance non mi ha particolarmente colpita). Oltre questa che potremmo considerare solo una nota di colore, dalla trama ci si aspettava o una storia con un taglio molto più agrodolce (così come è il libro; qualcosa, per fare un esempio, sulla linea di Noi siamo infinito – The Perks of Being a Wallflower del 2000 – di Stephen Chbosky o Juno di Jason Reitman) oppure una storia di denuncia come il già citato Ragazze interrotte o Magdalene di Peter Mullan. Invece, la pellicola, nonostante un punto di partenza interessante, non prende una direzione netta. Parte sulla scia di altri prodotti indipendenti, con una colonna sonora da urlo e un montaggio notevole, ma poi si perde tratteggiando solo superficialmente gli altri caratteri della storia oltre la protagonista e non equilibrando i rapporti tra i personaggi del racconto. Se vedo un personaggio solo in una scena prima che esploda, come faccio a sentire empatia nei suoi confronti e, quindi, nei confronti di ciò che gli accade? Stesso discorso per la struttura narrativa data dal montaggio, in cui si è scelto di essere ridondanti per quanto riguarda le scene di sesso, in maniera fin troppo didascalica, mentre non lo è si stati con tutto il resto. Inoltre, tutti i dettagli buffi sono spesso trattati in una maniera tale da non provocare nemmeno il sorriso. Solo leggere la descrizione dei personaggi dovrebbero crearci una reazione che, invece, nella sala cinematografica non arriva o, almeno, a me non è arrivata fino in fondo. Ma soprattutto, il film della regista americana di origine iraniana Desiree Akhavan si perde con un finale aperto che ha lasciato sia me che il mio amico Matteo – con me all’anteprima – un po’ perplessi perché poco realistica e concludente. Non ci resta quindi che il Canada?
Nonostante ciò che ne penso io, La diseducazione di Cameron Post ha vinto il premio come miglior film al Sundance Film Festival di quest’anno. Ma come ben sa chi mi segue, non sono quasi mai d’accordo con le premiazioni anche se sono consapevole e favorevole del fatto che il cinema e andare al cinema sia spesso un atto politico, come tutti i gesti che compiamo ogni giorno, e dare un premio a un film che parla di una tematica, vuol anche chiedere l’attenzione della gente che va nelle sale rispetto a quella tematica. Se l’educazione che si chiede a Cameron è conformarsi a ciò che ci fa meno paura, allora anche io sono per i diseducati e se dovessi votare per dargli un premio, anche se non sono convintissima della riuscita del film, il mio voto glielo darei.