“Non voglio cambiare il mondo, lascio che siano le mie canzoni ad esprimere le sensazioni e i sentimenti che provo ed ho provato.
Essere felici è il traguardo più importante per me, ora, e quando sono felice il mio lavoro lo dimostra. Alla fine tutti gli errori che ho commesso e tutte le relative scuse saranno da imputare solo a me: mi piace pensare di essere stato solo me stesso… Adesso voglio solamente avere tutta la gioia e la serenità possibili, e vivere quanta più vita possa, per tutto quel poco tempo che mi resta da vivere”.
Queste sono le ultime parole che Freddy Mercury ha voluto lasciare ai suoi fan attraverso il suo manager, uno a cui dopo la visione del film Bohemian Rhapsody penserò sempre e solo come ‘Miami’ (si tratta di Jim Beach, interpretato da Tom Hollander). Mercury sollecita tutti a diffondere più informazioni possibili sull’AIDS e a lottare, il più compatti possibile, contro questa terribile malattia che lo ha portato via all’età di 45 anni e che non ha smesso di diffondersi dal 1991 (anno della morte del cantautore) ad oggi. Ieri è stata la giornata mondiale contro l’AIDS ed ho recuperato i dati sul diffondersi della malattia. Sono davvero allarmanti soprattutto per quanto riguarda l’Europa dell’Est e in particolare la Russia, a causa della poca prevenzione e anche del nostro sottostimare una malattia che parrebbe essere scomparsa solo perché non se ne parla come un tempo. Solo perché non ci sono più gli spot in cui i malati vengono differenziati dagli altri con un contorno azzurro, non vuol dire che questi siano spariti. Ma Freddy Mercury non verrà ricordato per sempre solo per la sua malattia e la sua morte. Aveva qualcosa che riuscirà ad andare oltre loro per sempre.
Dopo aver visto Bohemian Rhapsody mi è capitato, facendo un esercizio di yoga, di guardarmi i piedi e di pensare a come potrebbe essere stato essere per Freddy guardare i propri piedi. Non mi era mai capitata una cosa del genere. Ero lì, distesa a terra con le gambe verso il soffitto a chiedermi cosa fosse per Freddy Mercury il proprio corpo. Mi sono chiesta se di quel talento incredibile alla me di dieci anni che ascoltava i Queen provando ad imitarne le gesta e che inseguiva le note di Barcelona per tutto l’appartamento (i miei erano stati per un congresso in quella città in coincidenza dell’uscita di quell’album da solista in cui Mercury canta con il soprano Montserrat Caballé e per settimane le pareti del nostro appartamento beneventano non hanno ascoltato altro) e alla me di ogni momento fino ad ora fosse arrivato, effettivamente e prima di tutto il resto, la concretezza del corpo, la potenza fisica di un meccanismo perfetto e capace di produrre qualcosa di straordinario, quella voce lì, che solo Freddy Mercury ha avuto. Per me, Freddy Mercury è prima di tutto un miracolo straordinario. Il regista Bryan Singer (in realtà, Singer è stato cacciato dal set dopo non essere rientrato dopo la pausa della Festa del Ringraziamento e, anche se questi non è stato accreditato, le riprese sono state terminate da Dexter Fletcher) ci racconta la storia di Freddy Mercury e dei Queen partendo dal Live Aid del 1985, da quei venti minuti al Wimbley stadium che hanno fatto la storia. Ritorna poi a Farrokh Bulsara, un ragazzino con i dentoni (incredibile il lavoro richiesto a Rami Malek anche solo per l’inserimento di una protesi dentale) che lavora all’aeroporto di Gatwich e che viene scambiato da tutti per un pakistano, anche se è di origini parsi ed è nato a Zanzibar. Racconta dell’incontro con quelli che poi sarebbero diventati i Queen e di una grandissima storia d’amore con Mary Austin, che poi ha ereditato buona parte dei beni di Freddy.
Bohemain Rhapsody racconta una storia che potrebbe sembrare incredibile ma che è davvero accaduta. Racconta di talenti incredibili che si incontrano, di riconoscimento, di ricerca di qualcosa che continuamente riempia lo spazio dentro e intorno, affinché la morte o chissà cosa al posto suo, venga magicamente spostata un po’ più in là. Sarà proprio questa ricerca, invece, ad avvicinare drammaticamente la fine. I fan dei Queen non troveranno una trasposizione fedelissima della vita del cantautore e del gruppo di cui fece parte (ad esempio Mary Austin, prima di uscire con Freddy era legata a Brian May mentre nella pellicola non si accenna a niente del genere) e nel film sembra quasi che Freddy sia stato ‘spinto’ dalle situazioni e dagli incontri all’omosessualità e anche che alcune questioni e discussioni tra i membri del gruppo (Ben Hardy, Joseph Massello – il bambino di Jurassic park – e Gwilym Lee sono straordinari nei panni dei componenti della band) siano rappresentate in modo superficiale e edulcorate da elementi che potrebbero essere considerati in maniera negativa dal pubblico (come gli interessi economici e delle rivalità che possono nascere e creare spontaneamente contrasti, anche a tratti, in qualunque rapporto). Ogni devianza viene motivata e giustificata ma, nella vita reale, nemmeno i protagonisti di alcune azioni riescono a fornire una spiegazione sui motivi che li hanno portati a comportarsi in un determinato modo. Inoltre, per quanto il lavoro attoriale di Malek sia grandioso, la percezione è che il suo sforzo si concretizzi specialmente nel corpo senza però che egli riesca fino in fondo (perché forse questo non è possibile) a restituire la grandezza, la statura e la complessità di un individuo probabilmente unico nella sua capacità di far arrivare la voce fino in cielo con tutte le sfumature e attraverso qualunque genere musicale conoscibile.
Resta il fatto che il tentativo di Mercury di vivere quanta più vita possibile sia arrivato a chiunque e che la rappresentazione della performance dei Queen al Live Aid del 1985 ha avuto la capacità di portarci in un altro spazio e un altro tempo, con le mani alzate verso il palco, a cantare con una delle più grandi band della Terra una canzone quasi folle intitolata Bohemian Rhapsody.