In questi ultimi mesi sto seguendo il Corso Fondamentale di Narrazione nella sede della casa editrice Laurana Editore di Milano. Si tratta di un weekend al mese di sveglia presto, dita sporche di inchiostro per gli appunti presi nelle ore passate a riflettere su meccanismi narrativi con i miei compagni di classe, tante caramelle per la gola, occhiate lanciate ai mille braccialetti di uno di loro, di finestre su mondi letti, della considerazione del tempo che tutti hanno speso a collezionare storie nelle proprie stupende vite, di spazio del tentativo di raccontare e del motivo, da proteggere e a volte da nascondere, che ci ha portati lì. Il nostro maestro si chiama Giulio Mozzi. Sembra stabile, uno che se gli dai una spinta riesce a stare, la ‘r’ moscia che non gli impedisce di essere un ottimo narratore. Indossa ogni volta magliette monocolore. Quando ride non riesco a non farlo anche io e quando spalanca gli occhi e le sue sopracciglia fanno diventare la sua faccia grandissima mentre si immedesima in un personaggio o legge un estratto particolarmente significativo di una storia, io non riesco a impedirmi di dare spazio alla mia attenzione aprendo la bocca come se fossi un bambino davanti ai cartoni. Giulio diventa la balena Moby Dick, uno degli strumenti inventati da Farabeuf per la chirurgia, Don Abbondio. È stato lui a farmi prendere coscienza del Narratore, a sottolineare che puoi scrivere qualunque storia cercando di avere il controllo di tutto ma non riuscirai a liberarti di chi scrive davvero, che è una parte di te sulla quale non puoi nulla. È palese in alcuni testi. L’autore vuole andare da una parte ma il suo narratore lo porta da un’altra o emerge per farsi sentire quando meno te lo aspetti. Già prima di riflettere su questo mi chiedevo come facesse uno scrittore a parlare di quello che scrive. Alle volte, si scrive perché non si riesce a comunicare con un altro mezzo. Quella cosa lì che si ha dentro non la si potrebbe spiegare in un altro modo. E poi, chi pensa all’autore mentre legge un libro? Io mi innamoro di Stephen Maturin, del suo sguardo nei viaggi con Jack Aubrey, non di Patrick O’ Brian. O mi sbaglio? Quanto dell’autore c’è e come si distribuisce nei suoi personaggi? E come può uno scrittore parlandone rendere il tempo in che è stato inseguito dal suo personaggio, dalla sua storia? E come può poi farti percepire il salto che compirai se vorrai seguirlo? Alcuni libri sono baratri, altri strade che prendi e poi non puoi tornare più indietro perché ti cambiano. Altri ancora, solo tempo che non hai passato da solo.
Tutto questo pensavo a Rovigo. Rovigoracconta nasce perché un ragazzo che ho incontrato per le strade con una maglietta verde militare e delle mani che potevano essere mie ha pensato, parlando con una sua amica, che potesse esserci. Lui, Mattia Signorini, è uno scrittore di cui non ho – ancora – letto nulla. Lei, Sara Bacchiega, è un’art director. Dal 2014 fanno crescere un festival di letteratura e musica, in cui si incontrano artisti e intellettuali tra le piazze più belle della loro città, ora segnalato come uno dei 25 eventi culturali più importanti del nostro Paese. A me a Rovigo per anni ha portato la mia amica Maddalena, quella con cui ho studiato alla specializzazione di laurea e che ho seguito per anni ai festival di cinema un po’ ovunque in Europa. La mia amica Maddalena con cui ho percorso tanti chilometri e qualche miglio marino, quest’anno mi ha riportata a casa sua. Mi è passata accanto mentre facevo una fila per comprare un libro o ballavo in strada in una Rovigo talmente piena di gente da non sembrare se stessa. Mi ha vista riuscire ad accaparrarmi un posto ad una presentazione o perderlo perché c’era troppa gente (ma tanto, subito dopo c’era un altro spazio e un altro nome da scoprire o ritrovare). Quest’anno Madda ha fatto parte del gruppo che dà vita a questo festival. Mi ha portato in un altro luogo in cui alimentare quello che sarà il mio narratore. Davanti a Lorenzo Marone, Francesco Guccini, Loriano Macchiavelli, Silvio Muccino, Folco Terzani, Marco Balzano, Giorgio Amitrano mi sono fatta le stesse domande di sempre. Quanto ci sarà di noi nelle loro parole scritte? Mi piace riportarvi una sintesi di Christian Mascheroni – un ragazzo dalla faccia buona che ha dato parola a quasi tutti gli artisti che erano lì – degli incontri di questi giorni di Rovigoracconta: il filo che univa molte delle storie di quest’anno è fatto di azioni, legature di piccole e grandi cose che si possono compiere in ogni vita, lunga o corta che sia. Come lottare per restare a casa (Resto qui di Marco Balzano), guardare lontano per crescere (Iro Iro di Amitrano), osservare bene per non perdere il legame (Questa nostra Italia di Corrado Augias), morire con dignità per affermare la vita e disobbedire civilmente (Credere disobbedire combattere di Marco Cappato), combattere la malavita e diventare eroi con una penna in mano e cercare di essere migliori anche a dodici anni (come Giancarlo Siani e il piccolo Mimì in Un ragazzo normale di Lorenzo Marone). Prendersi la responsabilità di fare delle cose e cercare di rendere la propria vita, in qualche modo, significativa. Mi è sembrato un piccolo atto coraggioso chiedere alla gente di sedersi a un millimetro dagli occhi di Silvia Salvagnini e sentirsi leggere una poesia presa a caso (ma esiste davvero il caso?) dal suo libro Il seme dell’abbraccio. Raccontare delle azioni e richiederle. Mi è sembrato un bel segno in un festival pieno di gente di tutte le età ma anche di ragazzi molto giovani e di bambini che saranno lettori assidui o meno ma che ricorderanno, comunque, la moquette arancione che ha coperto le piazze di questa città nei giorni del festival.
Ogni incontro di un festival letterario è un momento in cui un autore si siede e ti chiede – più o meno con competenza, difficoltà e senza barare – di fare un viaggio. Sta a noi decidere se accogliere la proposta.
Il festival è finito domenica, oggi è martedì ed io sono a pagina 38.
[Unico dispiacere essere partita prima di sentire parlare Genovesi ma con lui sono in viaggio da un pezzo.]