Vibra il corpo e la mente e il cuore. Vibra tutto quello di cui siamo fatti e quello che va oltre di noi. Vibrano i ricordi e quello che potrebbe essere il futuro. Vibra quello che abbiamo visto e quello che abbiamo solo immaginato. E il suono di questa vibrazione non sappiamo se abbia a che fare con la vita o con la morte; non sappiamo se si tratti di qualcosa che riconosciamo perché è un suono che c’era già prima di noi oppure se è qualcosa che produciamo noi stessi senza controllarlo. Come il battito cardiaco, come il rumore delle costole quando respiriamo in un modo che sembra non appartenerci. Come tutto quello che ci sorprende. Persino di noi e di quello che crediamo di conoscere.
Nei primi secondi nella sala Energy di Melzo ho sentito che sarei potuta dissolvermi in mille particelle. Mi sono chiesta se a tutti pesi così tanto il proprio bagaglio; tutto quello che si porta sempre con sé. Anche quando ci si siede in una sala cinematografica.
Di fronte a Oppenheimer di Christopher Nolan portavo con me non solo tutto l’amore per la sua regia, per i punti di vista scelti, per la fotografia, per tutto Memento e Dunkirk e Il cavaliere oscuro e The Prestige e Inception (e anche Interstellar che è piaciuto solo a me – rapporto padre- figlia, il mio punto debole) ma anche il riconoscere in Cillian Murphy, già dal trailer, mio nonno Tommaso. La stessa rigidità nella falda del cappello, le stesse dita lunghe, i nervi tesi del collo magrissimo. Gli occhi – di mio nonno grigi. Quel passo avanti o indietro con cui si fa fatica a stare davvero, fino in fondo, con gli altri. E poi anche la sensazione che ho sempre provato con i grandi velisti, quella non appartenenza allo stesso spazio e tempo. Quell’essere un po’ nel futuro, per poter prevedere cosa farà il vento e l’onda e la corrente. Quella ‘roba lì’ che io non ho, ma che mi è chiarissima. Quell’essere una cosa sola con la vita, con la materia, con l’essenza dell’essere. Quel non avere confine con quello che c’è intorno. Quell’equilibrio che porta al mal di terra, all’incapacità di stare in piedi altrove. L’assenza del confine tra le cose.
E in questa storia di un essere umano, quasi non umano, perseguitato dalla consapevolezza dell’altro, della complessità della materia e dello sconosciuto, dell’immaginabile e dell’inimmaginabile e del teorico, ci ho ritrovato tutto questo. Quell’alienità, quel privilegio ma anche terrore. Oppenheimer conosce, immagina. E tutto ciò lo spaventa tantissimo. Perché Prometeo non fece una bella fine.
Nolan si prende in spalla la storia di un personaggio incredibile per raccontare la vita e la morte, il desiderio di vendetta di quasi ogni essere umano (la mela di Eva e non solo), l’egoismo e il fascino, l’amicizia e la scienza. Racconta la vita di uno dei più grandi scienziati della storia e il lavoro di tutti quelli che contribuirono alla costruzione della più tremenda arma mai realizzata, la bomba atomica, oltre il suo sgancio su Hiroshima e Nagasaki (e al banale salvataggio di Kyoto perché uno dei generali statunitensi ci aveva trascorso il proprio viaggio di nozze), fino al ritiro della revoca di sicurezza che consentiva di lavorare al nucleare di Oppenheimer, causata forse anche un po’ da un tentativo – consapevole o meno – di espiazione per le conseguenze dell’utilizzo della bomba, vista non come ultima possibilità per terminare la Seconda Guerra Mondiale, ma come inizio della Guerra Fredda e di un equilibrio basato sulla minaccia reciproca.
Nolan la racconta andando avanti e indietro nel tempo, passando dal colore al b/n, entrando nei pensieri e nei ricordi di Robert Oppenheimer e in qualcosa che lo riguarda. Lo fa con una vibrazione costante di una colonna sonora onnipresente del compositore – premio Oscar per Black Panther – Ludwig Göransson – e con un cast stellare, a cui si aggiungono nomi talentuosissimi ad ogni inquadratura (Matt Damon, Emily Blunt, Florence Pugh, Robert Downey Jr – che verrà certamente candidato per l’Oscar per quest’interpretazione grandiosa in una figura che a me ha riportato alla mente Jeremy Irons – Josh Hartnett, Casey Affleck, Rami Malek, Kenneth Branagh, Alex Wolff, Gary Oldman, James Remar, tra tutti).
Un film, però, che richiede impegno e fatica, la scelta del dove guardare, l’attenzione necessaria a capire il non detto e tutto quello che viene detto, a fare collegamenti con quello che si sa ‘da fuori della sala’ e che arricchisce la comprensione del racconto. Lo fa riempiendo le inquadrature di gente o lasciando tanto spazio al cielo e al deserto e agli occhi sbarrati del suo protagonista. Gli fa fare un appello, gli fa chiedere scusa, gli fa implorare di cooperare per poter gestire l’ingestibile.
E la sua richiesta e la nostra incapacità di occuparci davvero, fino in fondo delle cose, in un mondo che ancora cerca di mettere bandierine alla comunità scientifica (con i russi cacciati dai laboratori solo per il luogo di nascita e non per il supporto alla politica del proprio Paese) e che non prende una posizione sulle armi nucleari (e anche qui, ritorno al mio vissuto e al lavoro di Croce Rossa Internazionale sulla Nuclear Experience) e che ancora fa differenza tra le persone per ideologia, in cui non si accetta l’essere diversi o imperfetti o spaventati, a me fa davvero tanta paura.
Un capolavoro davvero difficile da affrontare. Stupendo.