Besson apre il racconto di Dogman con una citazione di un romantico francese, Alphonse de Lamartine (che, ovviamente, ho dovuto cercare su internet): “Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane”. Lo scrivo e non riesco ad evitare di guardare il mio cane acciambellato su un pouf che doveva essere destinato ad altri usi e invece è ‘cuccia numero tre’.
Il racconto della vita di Douglas, protagonista di questo film che ci riporta indietro al 1994, ad un’altra storia e a un altro uomo, ad un altro nome che forse in entrambi casi è un appellativo; Leon, Dogman. La storia di un altro disadattato, incompreso, che – come la citazione – ha a che fare sia con i cani che con Dio.
I cani sono quelli che da sempre Douglas ha sentito più simili a se stesso, ha cercato di difendere, da cui ha ricevuto amore incondizionato; i cani sono quelli che altri avevano frainteso (come lui, indefinibile) sperando lo sbranassero, con cui è cresciuto, quelli che lo hanno capito e supportato in ogni momento della sua vita. Dio, poi; perché spesso viene invocato in questo racconto, anche lui non compreso, banalizzato, usato come una fede, un riferimento non comprensibile che giustifichi la spietatezza che gli stessi spietati compiono, qualcosa a cui arrendersi nel momento della crocifissione.
Besson legge un articolo su un bambino chiuso da suo padre in una gabbia con dei cani. Ne fa un film. La storia è quella di Douglas, raccontata dalla fine, dopo il suo arresto con gli abiti di Marylin Monroe (un’immagine iconica che dice tutto e niente ma resta indelebile) ad una psicologa chiamata dagli agenti che non sanno come ‘classificarlo’ e ‘dove inserirlo’. In un mondo in cui si cerca di definire ogni cosa, in cui il male deve essere solo male e il bene solo bene, è difficile definire un individuo di sesso maschile attratto dalle donne, che ama lo spettacolo e lavora come drag; un individuo con handicap fisici debilitanti che non intaccano la sua capacità di lottare e fare giustizia; di essere il giusto a cui ci si risolve, in un mondo in cui i definiti, quelli a cui si dovrebbe chiedere aiuto, arrivano sempre un po’ tardi e riescono a farti parlare (ma non ad impedire il sacrificio) perché anche loro sono doloranti.
Caleb Landry Jones ci regala un’interpretazione pazzesca, da standing ovation e rose senza spine lanciate sul palco. Non mi ha convinto molto la struttura un po’ alla Il silenzio degli innocenti con la psicologa attratta dalla figura dell’assassino con un passato traumatico (anche perché la figura della psicologa, interpretata da Jojo T. Gibbs, non è così carismatica e non riesce a equilibrarsi con Landry Jones) ma il racconto mi è rimasto attaccato addosso per giorni. Bentornato Luc.