Contano entrambi. Resistono, cercano di superare il limite, di astrarsi; teletrasportarsi altrove o diventare più forti. Il racconto all’inizio è buio e Joe può essere frainteso. La violenza dei suoi movimenti, i segni sulla sua figura quasi mostruosa (il petto, in dentro, come a proteggersi; il resto, resistente e all’erta, pronto all’attacco; gli occhi buoni di un bambino che avrebbe potuto essere un adulto diverso e invece non; l’incredibile Joaquin Phoenix) confondono lo spettatore. La scena è troppo splatter perché Joe sia l’eroe buono. Ha un martello con sé, brucia una foto di una ragazzina cinese con l’apparecchio. Come fa a essere Joe l’eroe buono? Nel cinema i cattivi eliminati dagli eroi cinematografici sembrano non avere sangue. Cadono, semplicemente, come birilli. Se le cose stanno diversamente è perché sono personaggi, non solo figure, che hanno guadagnato con la storia la giustificazione di quel sangue (che richiede comunque, al buono che non farebbe male ad una mosca, un gesto estremo, difficile da compiere). Nei corpi che Joe fa cadere, si palesa tutto il peso dei suoi colpi e la quasi indifferenza dei propri necessari gesti. Se non fosse tutto così triste potrebbe persino far ridere.
In ogni caso Joe è il buono di questa storia. La ragazza cinese della foto è tornata dai suoi genitori sana e salva e quelli a finire sotto i colpi del suo martello sono pedofili che l’avevano costretta in un circolo di prostituzione minorile con altre bambine e adolescenti ‘difficili’. Joe è l’eroe, non il carnefice. Nonostante la violenza dei colpi, il bisogno di apnee, la conta. Troppi i dettagli che ricorda. Troppe le cose da dimenticare. La guerra come marine, le strade come agente dell’FBI. Conta Joe, per dimenticare. Un piede di un bambino, uno snack. Suo padre, le violenze, la schiena da tenere dritta. Conta Joe ancora per contenere il passato, affinché il suo ricordo e tutta questa violenza non tocchi sua madre, una donna che di violenze ne ha viste troppe, che alla sua età fa ancora scherzi, ha perso qualche rotella ma è ancora amabile con il suo figlio adorato.
Anche Nina, una delle ragazzine che Joe deve liberare, conta. Conta affinché finisca prima. Conta per andare altrove, conta mentre si riabitua alla luce per vedere se regge. È la ricerca di Nina per suo padre senatore a complicare la violenta (quando non c’è sua madre) e tenera (quando invece è con lei) quotidianità di Joe. Perché il vizio e la perversione dei potenti non conoscono pietà né vergogna e non riconoscono il limite che dovrebbe dare lo schifo di sé, l’abuso di chi è debole o talmente tanto confuso da non sapere difendersi o sapere di doversi difendere.
Lynne Ramsay con la sua regia del racconto di Jonathan Ames ottiene il premio per la migliore sceneggiatura (da lei scritta) e fa vincere la Palma d’oro come miglior attore a Joaquin Phoenix al Festival del cinema di Cannes 2017. Spietatamente, la regista scozzese indaga ancora la psicologia di bambini e adolescenti complessi e il confronto con la morte (come ha fatto in …E ora parliamo di Kevin del 2011 ma anche in Morvern Callar del 2002 e in Ratcatcher del 1999) in un altro racconto cupo e per nulla banale. Descrive i suoi personaggi standogli addosso con la camera (tanti i primi piani, gli americani e i totalini) e scegliendo con cura ogni minimo dettaglio – ogni cosa sembra del colore giusto per essere guardato in quel momento (la spallina della camicia da notte della madre di Joe e i suoi occhiali da sole, la ciocca di capelli di Nina, il cellulare della ragazzina cinese, lo scatolame del tramite di Joe, le lattine nel vano dell’auto, i milkshake nel diner) anche grazie ai tagli di luce della fotografia di Thomas Townend, nome che potrebbe non dirvi niente ma che, tra le varie cose, ha anche curato il video della cantante Adele della canzone Rolling in the deep – evitando ogni didascalia.
Come spettatore mi sono chiesta quanti Joe e Nina la nostra società abbia creato, quante bambine non vengano cercate più da nessuno, quante case squallide come quelle nei cui corridoi passa Joe per fare il suo lavoro ci siano, non solo a New York ma anche in altri luoghi dove è facile perdersi ed essere persi. E poi, se Nina un giorno dovesse salvarsi, attaccandosi a un ‘andrà tutto bene’ che nessuno probabilmente le aveva mai detto prima, diventerà come Joe? O è già successo? Quando né lei né Joe non hanno avuto più alcuna possibilità di scelta? Quando hanno iniziato a costringersi entrambi a sperare in un giorno bellissimo, in cui non sono mai stati qui? Chissà quanti come loro ci sono passati accanto. Chissà quanti non sono mai stati veramente qui perché non li abbiamo salvati e non gli abbiamo lasciato la possibilità di stare.
Eppure anche oggi è un giorno bellissimo.
(Peccato, come spesso accade, per il doppiaggio – ci sono dei momenti tra Joe e sua madre che ho rimpianto non aver potuto vedere in originale perché le risatine in italiane ti facevano venir voglia di lasciare la sala).