Faccio fatica a scrivere da un po’. Nelle ultime settimane alla quasi ordinaria difficoltà si è aggiunto un senso di straniamento. Alle volte scrivere di cinema e libri mi sembra superfluo, come persino la vita che va avanti con i suoi tristissimi attimi – il peso della perdita improvvisa di qualcuno che amavi e la malattia che ti atterra di un altro – e anche con quelli sorprendenti in senso positivo – che sanno della consistenza della pelle di mia figlia nell’abbraccio del risveglio mentre mi chiama con la sua voce, quella tenera del dormiveglia. Superfluo rispetto al rischio di perdere il senso della realtà e del riconoscersi umani. Superfluo rispetto al senso di impotenza e inadeguatezza.
Faccio fatica ad andare a dormire. Metto i piedi nell’acqua del mare e penso (come ho sempre pensato) che la mia impercettibile ondina, quella creata dal mio ingresso ma anche dal piccolo contatto di un dito con la superficie del mare, riesca ad arrivare dall’altra parte, qualunque essa sia. Chiunque ci sia a fare la stessa cosa, in questo unico mare che chiamiamo con nomi diversi ma che è sempre lo stesso. Sotto questo cielo. Che ci pare diverso ma che è sempre lo stesso.
Però poi vado, vedo e penso. Sono abituata a esistere anche andando al cinema, guardando la tv e leggendo libri. Mi formano, trasformano, contengono anche tutto il resto della vita o è da essi che sono contenuti. Chi viene prima tra l’uovo e la gallina io mica ancora lo so. E leggo e vedo un po’ di tutto.
Weapons di Zach Cregger l’ho visto al Cinema Planet di Catania, una sera d’estate con milleseicento gradi. Il film lo ha scelto mio marito che è un tipo che legge le recensioni e che mi ha trascinato a vedere un horror dicendomi che ne aveva parlato bene anche Bordone (siamo abbonati al Post e io mi definisco – esagerando, come sempre – una ‘compagna di odio’ di Bordone, nel senso che ho in comune con il giornalista del podcast “Tienimi Bordone” non i like ma i dislike, oltre alla foga nell’esprimerli).
La sala era microscopica (di quelle che sembrano degli aerei intercontinentali per come sono disposti i posti). Oltre noi c’era un insetto morto su uno dei faretti per il camminamento, un’altra coppia e, mentre iniziava il film, sono entrati una decina di ragazzini, maschi e femmine, guidati dalle torce dei loro cellulari, tutti vestiti di nero, ricchi di popcorn e risatine. I commenti a voce alta (in un accento per me incomprensibile, a parte il ‘Mbare come interpunzione sempre a un tono più alto di tutto il resto) si sono placati man mano che la storia andava avanti.
La voce fuori campo di un bambino o una bambina (inutile che mi soffermi sul fastidio del vedere un film doppiato, dato che ormai siamo in tantissimi a non essere più abituati, soprattutto a doppiatori adulti che cercano di interpretare un bambino) avvisa che quella che stiamo per vedere è una storia vera, che è accaduta nella sua città, il piccolo centro di Maybrook e non è uscita da quei confini.
Si tratta della scomparsa di diciassette bambini da una classe di scuola elementare alle 2.17 di una notte qualunque. I bambini si sono alzati dai loro letti e sono usciti di casa, spesso ripresi dalle telecamere di sorveglianza, correndo verso l’oscurità che li ha poi inghiottiti. La mattina dopo la loro maestra, la professoressa Justine Gandi (l’ottima Julia Garner della serie di Netflix Ozark che per quell’interpretazione conquistò un Emmy) si è trovata in un’aula di cui solo un banco era occupato. Il banco di Alex.
Ma qui siamo già nei capitoli del racconto, sei, uno per un personaggio. Il primo, appunto, è l’insegnante. Dopo di lei si tornerà un po’ indietro nella storia seguendo un altro personaggio, con il quale si andrà un po’ più avanti; e così via, fino all’epilogo. Il secondo capitolo è quello dedicato ad Archer Graff (nei suoi panni Josh Brolin, un attore che ha interpretato di tutto) padre di uno dei bambini scomparsi, Michael, convinto che la professoressa Gandi sia in qualche modo coinvolta nella sparizione dei bambini; poi la camera segue il poliziotto Paul Morgan (Alden Ehrenreich, l’Ian Solo dello spin off del 2018 diretto da Ron Howard e il cattivo Zeke Stane nel Cinematic Universe della Marvel) – anche lui con un bel po’ di questioni da risolvere nel suo privato – che si trova ad indagare sul caso. Il quarto capitolo invece è quello – più splatter – del preside Marcus Miller (Benedict Wong, il Wong della Marvel che spesso troviamo con Doctor Strange) che abbiamo già incontrato nel cammino degli altri. Nel quinto, seguiamo James (Austin Abrams, conosciuto per aver interpretato Ethan nella serie su Prime Euphoria) un tossico che semplicemente si trova nella cittadina mentre tutto il resto accade – e che ci regala dei momenti persino comici con i suoi tentativi di sopravvivere in uno stato mai perfettamente lucido. E poi c’è Alex (Cary Christopher, non male il ragazetto) Alex Lilly, l’unico bambino rimasto della sua classe quando sono scomparsi tutti. Tranne lui.
Zach Cregger sa girare e ha un ottimo cast che riesce a trasmettere tutto il dubbio – su se stessi, sugli altri, sul cammino intrapreso finora, sul proprio ruolo – la paura del buio che inghiotte, il terrore del non riuscire ad avere il controllo, il bisogno di trovare un responsabile, dove anche chi viene indicata come strega ha un po’ il dubbio di poterlo essere. E tutto ciò è umano e riconoscibile e spaventa più di tutto il resto. Personalmente non sono un’amante del genere e, quindi, non essendo uno spettatore abituale, ho trovato la parte orrorifica anche un po’ banale e non all’altezza di tutto l’impianto, della struttura narrativa non così solita in un film come questo e, soprattutto, della caratterizzazione dei personaggi, non lasciata al caso e davvero di valore. Più di tutti non ho compreso il senso della visione del sogno di Archer, il padre di Michael, che vede un mitragliatore comparire nel cielo su una casa e alcuni elementi legati a quello che ha causato la scomparsa dei bambini (che non spoilero ma vi dico solo che c’è una pianta che arriva con un personaggio e che boh). In ogni caso, è fortissima la divisione tra i bambini e gli adulti e la sensazione che nei rapporti c’è qualcosa di sbagliato, c’è una comunità che non sa davvero mettersi in cerca, c’è un finto rispetto del confine invisibile, non solo degli steccati ma anche dei bei vialetti tra le villette ben tenute e ordinate, la possibilità di bere ma solo nascondendo le etichette e dentro casa propria, con qualcuno che ti guarda mentre crolli e non fa niente. E tutto ciò non rende possibile la vera salvezza. C’è la contezza della capacità di fare del male, di fronte alla quale non si potrà mai tornare indietro.
Ne parlano come uno dei più begli horror da un bel po’ di tempo a questa parte. Quindi, vi direi di vederlo. E poi, magari, di farmi sapere.
