Il docente è l’unico a tenere la camera spenta durante la lezione. Il suo riquadro, al centro dello schermo, è nero. Risponde alla domanda di uno studente sul perché non abbia ancora fatto sistemare la telecamera, mentendo. Non è rotta; è solo che non vuole mostrare il suo enorme corpo, quasi sprofondato nel divano, ai suoi allievi. Non lo dice, ma la sua figura è impressionante. Finisce la lezione di scrittura o letteratura, in una casa piena di libri, junky food e immondizia. Si masturba davanti a un video porno con protagonisti due uomini; si sente male, ha fame d’aria e, disperato, cerca di leggere una tesina. Chi l’ha scritta parla di Moby Dick, di Melville, della balena. Charlie fa sempre più fatica. Bussano alla porta. Pensa sia la sua amica Liz ma è un ragazzo che non ha mai visto. La porta è aperta, gli chiede di entrare e di aiutarlo, senza chiamare soccorso ma leggendogli la tesina. Si riprende. Il ragazzo si chiama Thomas (Ty Simpkins, Harley della saga degli Avengers della Marvel), è un membro della Chiesa New Life, fa il missionario e gli offre aiuto perché pensa che la sua fede possa salvarlo. Charlie lo ringrazia del tentativo ma la New Life (così dice) ha ucciso il suo compagno e gli chiede di andare via, cosa che il ragazzo fa con l’arrivo di Lucy (Hong Chau, nel suo primo ruolo importante), infermiera che, evidentemente, è l’unica persona ad occuparsi e preoccuparsi seriamente di Charlie e che gli dice chiaramente che, se non andrà in ospedale – cosa che lui non vuole assolutamente fare – morirà prima della fine della settimana.
Il personaggio di Charlie (interpretato da Brendan Fraser – ebbene sì, il Rick O’Connell della saga de La mummia di vent’anni fa – in un ruolo scelto perché dimostri che vale la pena ricordarlo non solo per la sua prestanza fisica degli anni 2000 ma anche per la sua bravura – e per i suoi occhi che, anche in The whale, occupano quasi più spazio del corpo di quello che – anche considerando come viene approcciato dai pochi personaggi a lui estranei nel film e come viene ripreso dallo stesso regista, Darren Aronofsky – è un essere mostruoso) viene seguito e raccontato per una settimana nella claustrofobia delle poche stanze del suo appartamento in cui si muove; nelle sue fobie, nella sua sofferenza, nel suo lasciarsi andare, nel suo tentativo di farsi del male ingozzandosi fino alla nausea. E nella bontà, nell’arresa, nella speranza nell’essere umano dei suoi occhi celesti.
Gli altri protagonisti sono Eddie, una figlia che Charlie ha abbandonato a otto anni e non ha più rivisto (interpretata da Sadie Sink, Max della serie Netflix Stranger Things) e sua moglie Mary (una delle mie attrici preferite, Samantha Morton, il cui personaggio in questo film sembra limitato alla funzione di far arrivare informazioni in maniera non troppo didascalica e non pare quasi aver spessore). E poi c’è Alan, che c’era e non c’è più, ma che è stata la causa o la scusa perché tutti i personaggi si trovano dove sono.
Cerco sempre di non sapere nulla di quello che vado a vedere al cinema, anche quando si fa fatica perché i film sono stati presentati a qualche festival, hanno vinto qualche premio e sono stati candidati a vincerne altri. Il tutto per avere un’esperienza privata, personale, senza l’eventuale condizionamento di un punto di vista altrui. Sono stata presente all’anteprima milanese di The whale in una situazione molto particolare. Mentre stavo andando al cinema ho assistito a un tentativo di furto. Quel momento aveva la possibilità di essere sceneggiato, con il ladro che prende il telefono dalle ginocchia di uno studente straniero, il tramviere allunga un po’ di più la fermata, il ragazzo derubato esce e quasi chiede all’altro sulla banchina, solo con la sua faccia: ‘ma cosa fai?’; l’altro che perde il tempo della bottigliata che potrebbe dargli (perché quello è un attimo che se lo perdi, non lo puoi recuperare) il proprietario riprende il telefono dalla mano del ladro che resta, chissà perché aperta, e il ragazzo torna indietro sul tram. Ci sono io sulla porta che la sto tenendo aperta.
Arrivo al cinema in ritardo e mi dicono che non c’è il posto che per me è stato riservato. Ossia, sono sulla lista ma hanno comunque riempito la sala. Guardo la referente della casa di distribuzione e l’addetto del cinema e dico solo: ‘Io sono sulla lista. Devo entrare’. E così guardo il film da una stanzetta un po’ separata dalla sala, quella riservata alle persone in sedia a rotelle. Riesco a vedere tutte le reazioni fisiche delle persone in sala. I movimenti delle teste, l’occhio buttato sui cellulari nelle parti meno convincenti.
The whale è un film che racconta personaggi fermi o che trascinano le loro vite nei giorni, come la balena descritta da Melville; che sembrano non avere sentimenti o i cui sentimenti e esigenze sembrano essere sbagliati, o che loro stessi considerano sbagliati, o che loro stessi hanno adottato solo perché sono sbagliati. Ci vuole, a mio parere, molta più consapevolezza, però, per muoversi attorno ad una balena che riempie così tanto lo spazio e che fa pochissimi movimenti, ma che sono quelli, terribili e giusti, forse indispensabili per cambiare il suo mondo. O per dare una giustificazione fortissima alla volontà di Charlie di dare una giustificazione al male. Troppe volte, figlia, madre, amici o finti amici vanno verso la porta, sprofondano in una poltrona o si muovono attorno ad una cucina, senza aver deciso con tutte le loro forze quei movimenti. Sembrano non sapere quale sia il motivo che li ha portati a fare quella cosa lì. E questo a me – questa mancanza di direzioni reali, dovute a esigenze reali – voglio andare via e se mi fermo sulla porta e perché ho pensato esattamente questa cosa qua o mi è arrivato un odore al naso che mi ha fatto ricordare quella cosa lì e mi ha fermata – veramente ha infastidito, perché mi ha fatto ricordare che c’è un regista (Darren Aronofsky, che ho amato in Requiem for a dream e ne Il cigno nero ma che ha realizzato il film che mi ha lasciato più perplessa della storia del cinema, Mother!) che muove le persone in una scena. E quando questo accade durante la visione (non dopo), vuol dire che qualcosa su di me non ha funzionato. La sensazione, però, più strana che ho percepito quasi immediatamente dopo, la visione del film è che The whale, sempre per me, ovviamente, è vecchio di 15 – 20 anni. E non mi era mai successo di sentire un racconto, che comunque è attuale e di cui riconosco il valore (la sceneggiatura è tratta da un’opera teatrale di Samuel D. Hunter che sa il fatto suo), come se parte una di lui fosse in un certo senso scaduta. Che forse oggi, questa storia qua, identica, con tutta questa carne sul fuoco (identità, valore delle scelte, rimorso, famiglia, crudeltà, scrittura, onestà) avrebbe bisogno di essere raccontata in un altro modo, per riuscire ad arrivare a persone come me.